I miliardari che affamano il giornalismo, esentasse

di Nico Piro*

Ho cominciato ad occuparmi di mobile journalism e di ogni strumento di ripresa/montaggio leggero, pratico e soprattutto economico nel 2014 quando non potevo contenere la mia rabbia (ben oltre l’indignazione) perché quasi nessun media occidentale stava seguendo l’epidemia di ebola in Sierra Leone, ma tutte le telecamere si accalcavano intorno alle poche decine di casi negli ospedali di casa nostra, da Dallas a Roma. Per carità un caso è sempre uno di troppo ma non potevo accettare l’indifferenza verso milioni di africani che attraversavano la peggior epidemia di un virus letale dell’epoca contemporanea.

Non è solo questione di dominante sciatteria e di eurocentrismo del giornalismo contemporaneo, l’informazione sta morendo per assenza di risorse. A furia di contenere i budget, ormai c’è rimasto poco o nulla da tagliare. Eppure siamo nell’epoca in cui la lettura e la visione/ascolto di contenuti sono diventati uno “sport” globale, grazie agli smartphone e alla digitalizzazione. Forse mai come in questa epoca si è fruito di contenuti giornalistici.

C’è qualcosa, quindi, che non torna: si legge di più, si “guarda” da ogni dove, si “ascolta” ad ogni ora, si fruisce on demand eppure i giornalisti sempre più si sentono dire che non ci sono soldi per le loro trasferte, per coprire crisi dimenticate e guerre, per vedersi pagare i propri stipendi e pensioni nei casi peggiori.

Dove finiscono questi soldi? Beh, spesso esentasse, gonfiano le tasche (enormi) dei tech giants, da Facebook a Google. Prendiamo, per esempio, il caso di Apple che ha raggiunto un valore record (pari a quello di quanti bilanci pubblici messi insieme?).
Bene la domanda è: Apple produce hardware? Solo hardware? No, è ormai diventata un colosso nella cui strategia commerciale la vendita di piattaforme fisiche si associa a quella di contenuti, dai film alla musica passando per i documentari di informazione.

Qualche giorno fa – vi stia simpatico o meno – Geremy Corbin, il leader dei Labour britannici, ha lanciato una proposta che dimostra come la politica può ancora avere un ruolo, piuttosto che limitarsi solo alla gestione dell’ordinario, lasciando alle super-multinazionali il compito di modellare il mondo presente e futuro. Corbin ha proposto una sorta di “patrimoniale” che serve a togliere ai super-ricchi  (Google e co.) per dare all’informazione (nel caso specifico del Regno Unito, anche e in particolare alla BBC).

Nella stessa direzione va la lettera appello di Sammy Ketz, della AFP (qui l’originale in inglesequi la traduzione in italiano) firmata da centinaia di inviati e indirizzata al Parlamento Europeo: obiettivo ottenere l’assegnazione dei diritti “ancillari” a chi produce contenuti giornalistici distribuiti da Google e Facebook: un pezzettino della torta che non scalfirà i loro mega-profitti ma aiuterà di certo l’informazione, locale e internazionale.

A proposito, su questo tema cosa fa la politica italiana? A me pare nulla, ma forse mi è sfuggito qualcosa. Eppure c’è da agire e di gran fretta.
O vogliamo continuare a credere che la Rete sia il luogo del possibile – illusione vintage, già archiviata nei primi anni ’90 – dove circola la “verità” per cui non c’è bisogno di giornalisti? I giornalisti e i media non sono esenti da critiche e non possono esserlo ma siamo sicuri che l’alternativa sia un panorama dove si spacciano beveroni per medicine che le corporation tengono chiuse in un armadietto per non perder cliente? Dove le pubblicità sono mascherate da finte recensioni? Dove palesi e fantasiose (ma ben studiate e quindi verosimili bugie) vengono spacciate per notizie talmente scottanti da richiederne una diffusione in catena “prima che cancellino tutto”?

Il giornalismo costa, il giornalismo fatto non dalla scrivania ma sul campo costa sempre di più soprattutto nei luoghi dove si rischia la vita (ma dove è giusto andare lo stesso), il giornalismo non può essere gratis e allora cominci a pagare chi ne trae profitti inimmaginabili mentre il giornalismo scivola verso la bancarotta.
A quel punto non sarà bancarotta solo di un settore produttivo, come toccò alle calcolatrici dopo l’avvento dei computer, ma della democrazia.

* L’articolo originale si trova sul blog personale dell’autore