Il Servizio Pubblico non è un franchising

di Andrea Rustichelli

“Occorre preservare l’attrattività delle zone terremotate e la Rai ci può aiutare in questo racconto”. Le parole del premier Gentiloni, domenica 5 marzo a “Domenica In”, sono molto importanti: segnano, infatti, un’inversione di tendenza rispetto al discorso pubblico prevalente sulla Rai, fatto di costante discredito verso l’azienda, definita spesso, con un errore forse calcolato, “azienda di Stato” (si tratta invece di azienda concessionaria del Servizio Pubblico). Un discorso pubblico, quello ricorrente sulla Rai, animato da intenti ormai demolitori che, ammiccando alla pancia degli elettori, trattano la concessionaria del Servizio Pubblico come un pezzo di establishment (regno di sprechi e privilegi) da abbattere.

Un ordine del discorso che, in buona parte e al netto della libertà di critica che va sempre difesa, è quasi sempre interessato: e ha oggi per corollario un obiettivo preciso: lo “spacchettamento” del canone, cioè l’assegnazione dalla mission (e delle sostanze) del Servizio Pubblico anche ad altre aziende, aziende private (come se il Servizio Pubblico fosse un franchising). I casi più conclamati sono, per fare esempi recenti, gli interventi di Giovanni Minoli (che, mandato in pensione dalla Rai, lavora ora per la concorrenza), ripresi e rilanciati dal deputato Anzaldi, della Commissione di Vigilanza. Entrambi hanno tutto il diritto di esprimere le loro opinioni, pienamente legittime; ma è altrettanto legittimo dissentire e tentare di confutare lo schema che tali opinioni ricalcano.

Ovviamente tutti i gruppi editoriali, interessati alla torta del canone, divulgano ed esaltano il discorso pubblico anti Rai. Una demolizione che fa leva non tanto sulle riscontrabili lacune gestionali dell’azienda, prese a mero pretesto; quanto su due punti sottotraccia, concatenati: insofferenza verso il Servizio Pubblico (cioè avrebbe poco senso, oggi, nell’era dell’on demand, parlare di Servizio Pubblico) e, allo stesso tempo, insofferenza per il canone (la famosa “tassa più odiosa”), specie e soprattutto quando venga trasferito monoliticamente all’azienda Rai. Se proprio il canone deve esserci, recita tale format, trattiamolo come una sorta di abbonamento multiplo di cui possano beneficiare anche le emittenti che lo meritano. È una sorta di rivisitazione-traslazione dell’on demand: è l’utente che deve premiare ciò che preferisce, che deve spendere dove vuole.

Come dipendenti della Rai e come giornalisti del Servizio Pubblico, di fronte alle detrazioni quotidiane (diverse dalle critiche), cui la stessa Rai spesso non manca di offrire spunti, dobbiamo porci una domanda: come difendere le ragioni del Servizio Pubblico (e del canone)? Siamo alla viglia delle primarie del Pd e poi di una lunga campagna elettorale per le politiche, verosimilmente nel 2018. La Rai rischia di essere evocata (se mai) solo come uno scalpo sanguinante del sistema, da esibire alla piazza. Possiamo forse essere più esigenti e nutrire altre aspettative rispetto al discorso pubblico sulla Rai? Una risposta affermativa è auspicabile, non possiamo continuare ad assistere frastornati all’agonia della Rai, che vede molti becchini interessati: praticamente tutti i gruppi editoriali, ormai multimediali.

Occorre, più che difendere meccanicamente la credibilità di questa Rai com’è oggi, fare un’opera di ricucitura, concettuale e di parole. Un’opera semplice di comunicazione, che oltretutto sfidi il sospetto e l’ostilità che aleggiano costantemente su tutto ciò che è pubblico, visto non a caso come ricettacolo di cattive pratiche.

E allora costruiamocelo e divulghiamolo un discorso alternativo in materia di Servizio Pubblico. Divulghiamolo e chiediamo alla politica, alla scadenza di appuntamenti importanti per la democrazia, cosa intenda fare con la Rai: continuare a ignorarla e a smantellarla (culturalmente e materialmente), o rilanciarla come un bene comune?

Ecco quindi un abbozzo di prontuario possibile (e da completare) per un discorso alternativo sulla Rai; non calcando troppo, però, argomenti nobili ma deboli, come la difesa dei posti di lavoro interni o il fatto che la Rai rappresenti l’identità culturale del Paese, argomento alto e ineccepibile ma in fondo passatista.

Prima domanda, quella fondamentale: è necessario, in una democrazia, che esista il Servizio Pubblico radiotelevisivo (multimediale)? Risposta: sì, perché il settore è talmente strategico e rilevante rispetto agli orientamenti dell’opinione pubblica che non può essere lasciato solo alla mercé di capitali privati (i grandi gruppi, anche esteri), di aziende che inevitabilmente sono mosse anche (e legittimamente) da interessi particolari e di profitto.

Seconda domanda: se deve esistere il Servizio Pubblico radiotelevisivo (multimediale), chi deve dargli corpo? Risposta: deve dargli corpo un’azienda pubblica, come accade oggi, concessionaria del Sevizio Pubblico. Perché solo un soggetto pubblico, cioè non portatore di interessi privati, può e deve garantire imparzialità e pluralismo. Una siffatta azienda (pubblica) va quindi finanziata coi denari della collettività, dunque col canone. E anche l’Europa, a più riprese (Trattato di Amsterdam del 1997), sostiene e raccomanda che ogni Stato membro abbia un’azienda che incarni il Servizio Pubblico.

Quanto a noi, i giornalisti Rai, col nostro lavoro dobbiamo essere all’altezza di tutto questo: dobbiamo esigere e produrre, ciascuno nel suo ruolo e con le sue mansioni, un Servizio Pubblico inattaccabile, che offra una qualità e un’etica inattaccabili. Dobbiamo quindi essere intransigenti con noi stessi e con chi occupa posti di dirigenza.

Quanto alla politica, last but not least, dobbiamo continuare a chiederle che faccia soprattutto una cosa: preoccuparsi di dare alla Rai una buona governance. La sensibilità di Paolo Gentiloni, che da ministro presentò, una decina di anni fa, un disegno di legge in materia, è di buon auspicio.

Occorre, quindi, uno scarto netto rispetto al discorso corrente e corrivo. Uno scarto cui dobbiamo continuare a dare il nostro contributo forte: dove il fulcro, più che improbabili “spacchettamenti”, diventa quello della coerenza e dell’impegno, di tutti i soggetti coinvolti, affinché la Rai possa incarnare al meglio il suo ruolo necessario di Servizio Pubblico.