Grilli e cicale dell’informazione

L’informazione può solo essere un ring per la realtà del movimento di Grillo? Al di là dell’aneddotica  dei rapporti con i giornali e i giornalisti, che Grillo sta esasperando perché ha capito che più esorcizza più rimane in prima pagina, c’è un tema che ad addetti ai lavori non può passare inosservato: un nuovo conflitto d’interesse digitale.

Grillo e Casaleggio sono  persone troppo informate sui fatti per non sapere che la rete non è un ambiente neutro, dove ci si scorrazza liberamente senza dover rendere conto a nessuno.Se non altro perché Grillo vi ha costruito  l’identità originaria del suo movimento, e Casaleggio  con i poteri della rete ci lavora, quotidianamente.

La rete è oggi un mercato, insidiato da poderosi interessi che stanno configurando nuovi monopoli. Inoltre la rete è un linguaggio, in cui forma e contenuto si plasmano reciprocamente. Se si usano certe app o certi standard non si potrà che esprimere certi contenuti e adottare certi modelli relazionali.

Su questi  due punti il dibattito langue. Eppure rappresentano una parte consistente dell’anima della terza forza politica del paese. Come giornalisti, e soprattutto come parte del servizio pubblico , siamo coinvolti  di forza da questi due temi: autonomia dalla  nuova casta digitale e consapevolezza nell’uso dei linguaggi  a rete.

Per questo è importante capire come il M5S intenda l’uso della rete come sistema informativo e piattaforma relazionale. Se guardiamo  quello che fino ad ora si è visto, non possiamo non concludere che la rete per Casaleggio e Grillo è poco più della TV.

Fino ad oggi siamo sempre ad una logica verticale, dove il social network è ancora lontano, e ci si attesta in un arcaico mix di blog personali e mail list centralizzate.

La rete, spiegano  i grandi  guru digitali è una listen technology, non una speaking technology.

Il valore delle comunità digitale è quello di ascoltare e rielaborare in modalità collettive, non quello di pontificare dall’alto. Il top down è già stato inventato più di mezzo secolo fa e si chiama broadcasting.

L’alternativa al broadcasting non è, simmetricamente il multicasting, ma è il browsing, ossia la navigazione libera e la partecipazione volontaria e occasionale su singoli punti d’interesse. E’ chiaro che la forza materiale del grillismo stia innanzitutto in quel  movimento anti elitario, quel comune sentire di massa,che Grillo ha potuto intercettare e veicolare grazie alla attiva collaborazione dei partiti tradizionali. Grillo è stato un grande megafono, questo non  è in discussione. Quello che è ampiamente discutibile sono i valori e le pratiche del predicatore.E soprattutto gli obbiettivi del suo ispiratore digitale.

La rete, a differenza del mondo degli atomi,  non consente scissioni fra forme e contenuti, fra fini e mezzi, fra strumenti e valori . Nel digitale ogni singola soluzione o applicazione  implica un assetto concettuale, un modello di linguaggio, una tipologia di relazione che, a sua volta, pre determina il contenuto e i contenuti della comunicazione. Non esistono  mezzi neutri .Se si adottano standard di un certo tipo è perché si vuole un certo tipo di relazione o di contenuti.

Nel caso specifico, non si può usare una vecchia piattaforma di 12 anni fa, come continua a fare Casaleggio per il suo movimento, a differenza di quelle che invece adotta per i suoi clienti, e sostenere che si vuole promuovere trasparenza e partecipazione.

Se si rimane al modello del blog, nell’epoca del web 3.0, allora vuol dire che si vuole, per infinite considerazioni, privilegiare la selettività degli accessi e la gerarchia nell”abilitazione  dei singoli soggetti a discutere. Infatti  ancora non c’è traccia della mitica piattaforma che dovrebbe promuovere, e certificare, i pronunciamenti on line della community del movimento.

Tutto rimane convogliato sulle pagine del sito di Beppe Grillo, dove uno parla e gli altri  prendono appunti. Di conseguenza, come hanno rilevato Pier Giorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini nel loro saggio Il Partito di Grillo,i candidati del M5S sono molto meno attivi sul web dei loro colleghi del PD o dello stesso PDL. Solo il 42% dei grillini presenti nelle liste al parlamento nell’ultima consultazione sono presenti su almeno tre dei principali social network, rispetto al 92% dei candidati del PD e il 75% del PDL. Un dato che ci fa intendere anche come siano stati selezionati questi candidati e da quale area sociale provengano.

Una realtà che parla della rete ma riproduce la TV. Infatti mentre i quadri del movimento, i nuovi parlamentari grillini, non affollano i social network, e si tengono distanti da Facebook e da Twitter, sembrano più propensi all’uso dei video, alla frequentazione di Youtube. La parola d’ordine è negoziare con la TV, cambiarla.

Infatti  anche le immagini, persino quelle più impertinenti, vengono dall’alto, e devono essere solo rilanciate .Non si lavora per abbondanza, per contributi virali, ma per fonti certificate, come  Salvochannel5puntozero, il canale di Salvo Mandarà, l’ingegnere siciliano che ha accompagnato Grillo, insieme all’autista del Costa Rica, per le sue peregrinazioni, con il mandato di produrre le immagini ufficiali del movimento.

L’altro punto che accennavamo riguarda  la relazione con i poteri digitali.

Mentre sui temi delle energie rinnovabili, del mercato finanziario, e, ovviamente dei costi della casta politica, Grillo e Casaleggio sono prodighi di critiche e contro proposte rispetto ai poteri prevalenti, risulta assordante il silenzio sui nuovi poteri digitali.

Non sono certo i soli. Pd e Pdl non hanno certo elaborazioni sul tema. Per il Pd, il digitale è un mondo ambiguo e ostile, che non presenta sfaccettature e che al momento è percepito come largamente ostile alla sinistra. Per il Pdl, partito azienda del monopolio della TV generalista, la rete è una vera insidia da esorcizzare.

Ma Grillo e Casaleggio sono gli aedi del digitale, lo sbandierano ad ogni piè sospinto, lo usano come una clava per dimostrare l’inadeguatezza del mondo politico che vogliono rottamare. Come possono proprio loro tacere sui nuovi pericoli per gli individui, per i cittadini e per l’intera comunità nazionale, rappresentati dalla pervasività  dei monitoraggi comportamentali delle grandi potenze virali, come Facebook, Google, o Twitter? Come è possibile che chi conosce il settore non introduca nei suoi programmi proposte o misure nei confronti  degli squilibri che  i sistemi proprietari digitali stanno introducendo nel mercato del sapere?

Non a caso nei giorni scorsi il tema di una regolamentazione delle potenze digitali  è diventato centrale sia negli USA che in Europa. Proprio Obama ha deciso di considerare prioritario l’elaborazione di un Bill of Right a tutela dei comportamenti individuali e collettivi in rete. Ponendo il problema di un ruolo pubblico nella rete.

Siamo, su questo fronte, già sull’orlo di una vera emergenza, che minaccia la sovranità nazionale degli stati e la trasparenza delle nostre stesse relazioni sociali. Ogni nostra navigazione su Twitter o su Facebook, ormai prassi obbligata per reggere  il processo di connessione con i flussi professionali e cognitivi, viene monitorata e rivenduta a decine e decine di soggetti economici.

Non si tratta solo delle forme di advertising comportamentale, in cui aziende usano la tracciabilità dei nostri gusti per indirizzarci messaggi mirati. Si tratta anche di una prevaricazione dei nostri diritti personali, e del controllo delle nostre relazioni, se ad esempio una banca ci discrimina, se viene informata delle nostre frequentazioni su siti di scommesse, o se una scuola ci rifiuta l’iscrizione in base alla partecipazione a forum o ad una determinata community.

Inoltre ci sono le questioni della contendibilità dei diritti di uso e di proprietà dei beni comuni, come ad esempio immagini e simboli culturali nazionali, come il patrimonio storico e archeologico del nostro paese, o la reciprocità nell’uso di contenuti informativi  o giornalistici, che Google usa per le sue rassegne, ma poi ne impedisce la condivisione a cittadini o a enti pubblici che vogliono usufruire di un flusso automatico di aggiornamenti.

Su questi temi il problema  è il negoziato: come si fa a contrattare con i grandi Brand digitali? Gli enti locali, le comunità professionali, il sistema formativo come può condividere gli standard e i linguaggi? La Rai, come servizio pubblico non potrebbe essere un partner e un supporto per questa condivisione dei saperi digitali con i grandi fornitori?

Questo è un tema di riflessione sia per rigenerare il servizio pubblico e sia per capire un fenomeno prorompente come i 5S  dove vuole andare e soprattutto con chi.

Michele Mezza

mediasenzamediatori.org