Il dovere di raccontare in prima persona

Manca poco alle due di sabato pomeriggio quando le agenzie battono la notizia che attendevamo da giorni: Susan Dabbous, Amedeo Ricucci, Andrea Vignali, Elio Colavolpe sono liberi. Alle 14.20 sul cellulare mi arrriva un sms del gestore: “Amedeo Ricucci è di nuovo raggiungibile”. Mi precipito al telefono e alla fine riesco a parlare con Amedeo che da buon inviato racconta la vicenda sua e degli altri tre colleghi quasi con britannico distacco, nonostante abbia passato giorni “privato della libertà”.

Ci tiene a precisare che sono finiti nelle mani non dell’Esercito Libero Siriano ma di un gruppo militare islamista, quindi di estremisti islamici, la cui agenda politica solo in parte coincide con la liberazione della Siria dalla dittatura di Assad.

Il conflitto siriano va avanti da poco più di due anni ma è già finito nella categoria dei conflitti dimenticati nonostante i 70mila morti stimati nei mesi scorsi dall’Onu (ma intanto sono diventati molti di più).
Raccontare una guerra ha dei costi e dei rischi, entrambi alti. Ci sono rischi come quelli che hanno corso i nostri colleghi e rischi più profani, come quelli di un calo dell’audience a furia di parlare di conflitti che purtroppo a lungo sono tristemente uguali a loro stessi.

Il Servizio pubblico, pur facendo ogni sforzo per i ridurre il margine di pericolo per chi va sul campo, ha il dovere di raccontare la sofferenza dei civili, le dinamiche e gli interessi che muovono i conflitti.E di farlo in prima persona, per quanto possibile. Non è solo un dovere è uno di quei compiti che segnano l’identità del Servizio pubblico.

Nico Piro