Le ‘periferie’ non interessano? Ecco la prova che è falso

di Nico Piro

“Ricordarsi” delle crisi “dimenticate” – una cura per il giornalismo in crisi, un mattone per costruire il futuro del servizio pubblico nell’era dei grandi cambiamenti.

bambini_bangladesh

Nel giornalismo, in particolare quello italiano, esiste la curiosa categoria delle crisi dimenticate, ammissione della nostra incapacità e/o mancanza di volontà di occuparci di certe notizie, quasi sempre lontane e scomode.

L’oblio spesso conviene al potere, quasi mai aiuta i cittadini. Basta pensare alle spalle voltate dall’informazione all’Iraq per poi risvegliarci con Mosul nelle mani dell’Isis o la scarsa attenzione per il conflitto siriano, riscoperto quando in centinaia di migliaia hanno preso a cercare rifugio in Europa.

Il dramma dei rohingya – minoranza mussulmana, vittima di una feroce pulizia etnica nel buddista Myanmar – è una crisi dimenticata “anomala” perché non ha mai ricevuto una consistente attenzione mediatica, nemmeno quando tra fine agosto e i primi di ottobre, in 400mila hanno attraversato la frontiera del Bangladesh, picchi mai visti in una crisi del genere.

Oggi ci sono oltre 600mila profughi nel povero Paese del golfo del Bengala. Vivono in condizioni disperate, in campi sovraffollati e malsani dove sono destinati a restare anni e dove continuano ad arrivare senza sosta.

Nelle ultime due settimane, grazie al Tg3 e nonostante le complessità burocratiche, logistiche ed economiche di una trasferta del genere, ho raccontato sul campo la crisi dei rohingya.

La risposta del pubblico sia in tv che sui social è stata incoraggiante, al di là delle aspettative. È la riprova che esiste una fetta di pubblico che vuole essere informato su questi argomenti e che respinge l’informazione fotocopia e fatta col bilancino “tematico”.

La riprova che, nell’epoca in cui ha perso la sua funzione di “accesso universale” a contenuti audiovisivi, il servizio pubblico radiotelevisivo ritrova la sua “necessjtà” sociale, la sua ragione fondante, la sua funzione editoriale primaria se allarga lo sguardo verso luoghi e temi che la concorrenza commerciale nemmeno sfiora, se sfida il conformismo informativo, se rompe l’antica “maledizione” dell’autoreferenzialità (del giornalismo tutto) sintetizzabile nella frase “no, di questo non ci occupiamo perché alla gente non interessa”.

È possibile costruire intorno alle crisi dimenticate una nuova identità del servizio pubblico? Probabilmente non è solo possibile ma è anche necessario.
Personalmente, sento di aver adempiuto al mio dovere di inviato quando riesco a dare voce agli ultimi della Terra, nelle piccole come nelle grandi storie. Altrettanto personalmente, spero che la Rai possa fare del dare voce a chi non ha voce, un suo impegno costante e costituente, parte della sua identità.

Nella grande “lavatrice” dell’abbondanza informativa digitale, dove l’ultima notizia rapidissimamente scalza la penultima in una centrifuga senza sosta, il giornalismo “in crisi” (di credibilità e di introiti) ha bisogno di scelte coraggiose.

Deve riprendere in mano il filo della narrazione della realtà, sfuggendo alla rincorsa dell’ultima notizia e cercando invece di servire il nostro pubblico, fornendogli strumenti per comprendere e approfondire il nostro, sempre più complesso, mondo dove globalizzate non sono solo le merci ma anche le crisi, pur lontane ma capaci di incidere pesantemente sul nostro presente e di veneri a bussare alla porta delle nostre case.