#RiformaRai, la rivoluzione culturale necessaria

di Onofrio Dispenza

La riforma proposta e avviata dal Direttore Generale, frutto di un lavoro di gruppo, deve dispiegarsi velocemente, modificando nel midollo l’assetto del servizio pubblico e il modo d’essere della nostra informazione. Per essere chiari, parto da questa convinzione. E dalla convinzione che un buon servizio pubblico deve fondarsi non su quadri d’autore, come ben suggerisce il collega Figorilli nel suo intervento, ma su grandi squadre di lavoro che non dovranno rispondere agli umori, alle aspettative personali e ai disegni, magari esterni al servizio pubblico e al suo interesse primario, dei singoli. Non sono tempi per zar e zarine. Diciamocelo, e francamente: davvero si crede che uno sfoltimento della schiera di direttori e vice sia lesiva della qualità e dell’indipendenza del servizio pubblico? Alzi la mano chi lo crede in buona fede.

Per cambiare la Rai, tutti siamo in ritardo e ciascuno di noi ha un tassello di responsabilità. Si doveva fare molto prima, con coraggio e con uno sforzo comune. Parlamento, forze politiche, vertici aziendali, sindacato. Tutto avrebbe dovuto avere origine da un dibattito nel Paese sull’elemento culturale più delicato. Si, è un Paese che la cultura bistratta e guarda con sospetto.

Anche per questo, avremmo dovuto costruire un consenso diffuso attorno ad un progetto che il Paese avrebbe dovuto sentire prioritario, avrebbe dovuto inserirlo tra i diritti. Perché è tra i diritti primari una informazione libera, corretta, ben fatta, attenta, capace di raccontare e denunciare, quando occorre, con libertà. Non lo si è fatto, ora siamo alla vigilia di quella che dobbiamo provare come svolta. E la cosa più importante da fare è sconfiggere le spinte al conservatorismo, magari ammantate da pretestuose difese di questa o quella specificità. Viviamo altri tempi, dobbiamo vivere il nostro tempo, misurarci con la concorrenza interna, guardare ai migliori modelli di informazione, in Europa e nel mondo.

Occorre riformare la struttura, la missione, occorre avviare in tempi brevissimi – abbiamo il dovere di dircelo, comprendendo quel che voglio dire, senza equivoci – una campagna di “rialfabetizzazione” di ciascuno di noi. Riaprire gli occhi, iniettarci dose massicce di curiosità, osservare il mondo e il nostro Paese con attenzione nuova e continuità, riappropriandoci delle regole del racconto. Con un avvertimento: la modernità e la velocità dell’informazione ( penso ai rischi dell’all news, che deve coprire h24 lo schermo ) non è leggerezza, anzi. La superficialità è minacciosamente dietro l’angolo. Quello che dobbiamo fare, dunque, è una cosa antica, che è stata, in passato, un grande patrimonio, una grande capacità del servizio pubblico. Dice bene Figorilli quando racconta la propria esperienza a Gaza. Con il tanto che anche questa volta abbiamo messo in campo, avremmo potuto scrivere tante pagine di un passaggio drammatico, doloroso e sanguinante della nostra storia se ciascuno non avesse avuto il compito di fare (anche) quello che faceva chi gli stava accanto.

Tutti a marcarci, come sempre. Molto spetta a noi, tanto all’azienda che deve ripensare l’uso migliore e corretto delle risorse, e di quelle umane soprattutto, spesso pesate con bilance “difettose”. Lo sappiamo, l’informazione RAI condivide con il resto dell’informazione italiana un’eredità culturale che la distanzia e l’attarda dal quadro europeo, soprattutto per il rapporto con la politica. Qui parlo della politica come”oggetto”dell’informazione. Perché ci sia quell’auspicato racconto anche l’idea della politica deve essere più alta, e non consumarsi nel bollettino di quanto si fa, ma più spesso si dice, nel triangolo istituzionale. C’è una Politica diffusa ( e che non ha la dovuta attenzione ) che si elabora e si dispiega nel tessuto vivo della società. Penso al mondo ricco e straordinario del volontariato, alle realtà giovanili di elaborazione di idee che spesso non facciamo conoscere e non contribuiamo a offrire alla politica della rappresentanza democratica.

Proviamoci. Proviamo, azienda, giornalisti, tecnici, lavoratori tutti, a raccogliere la sfida di una Rai che non sia divisa in”cartelli”. Con una centralità che si sposti dalla figura del direttore al corpo redazionale, con l’azienda che dovrà guidare i nuovi processi di lavoro comune, così come si fa nei paesi anglosassoni. Sarà una rivoluzione? Vedremo, bisogna provare e provarci. Certo, ci vorrà una rivoluzione, è necessaria ed improcrastinabile una rivoluzione. Soprattutto culturale, anche nei vertici aziendali. L’oggi è fatto da una all news che si è ingrossata velocemente, ancor prima di una corretta scrittura del progetto. Poi c’è la TGR che è la più grande testata europea e che sulla carta ha la stessa missione, la stessa organizzazione, la stessa struttura di quando fu pensata. E’ qui che si deve concentrare lo sforzo del nostro racconto. Per farlo, occorre ripensare tutto. Quindi, un Tg3 che è stato e che non è. E poi il Tg1, il Tg2 con tante edizioni ad orari fissi come quando si rientrava e ci si metteva davanti alla tv per il telegiornale. Tutto così lontano dal tempo che viviamo. Ci sono dubbi sul nuovo che viene ? Legittimi, siano tanti e discutiamone. Ma una cosa è certa: bisogna abbandonare lo stantio che viviamo. Ne dobbiamo uscire rapidamente, con decisione e con motivazioni incoraggiate dalle scelte di fondo e dai comportamenti quotidiani dei nostri vertici.