Appunti sparsi dopo il No al «No Billag»

di Franz Giordano

Il segnale è chiaro – I cittadini svizzeri hanno bocciato l’abolizione del canone proposta attraverso il referendum «No Billag» da un gruppo di neoliberisti radicali, sostenuti dai giovani liberali e dall’Unione democratica di centro. Il No ha sfiorato il 72 per cento, superando anche le previsioni dei sondaggi. Un segnale chiaro. Come sottolinea il professor Mark Eisenegger, docente di comunicazione all’Università di Zurigo, «c’è stata una grande mobilitazione a sostegno della SRG, il servizio pubblico radiotelevisivo svizzero».

Un fronte ampio – dalle associazioni economiche agli artisti – si è schierato contro l’iniziativa «No Billag», che secondo molti osservatori avrebbe messo in ginocchio la SRG. Dunque, in Svizzera il canone è salvo (391 euro, il più caro d’Europa, dal 1 gennaio 2019 verrà abbassato a 316 euro), la SRG può festeggiare e i servizi pubblici dei Paesi confinanti – che temono iniziative simili – sono un po’ più tranquilli.

Solo un po’, però. In Germania – dove Ard e Zdf subiscono da mesi gli attacchi del partito di destra Alternative für Deutschland e degli editori – in un sondaggio realizzato da Civey per i giornali del gruppo Funke, la percentuale di cittadini contrari all’eliminazione dei canali pubblici scende al 55 per cento. I favorevoli sono il 39 per cento. In Italia, dove il canone è già stato abbassato a 90 euro, come andrebbe a finire? È una domanda che mi sono fissato con un post-it nel cervello, insieme ad alcune riflessioni nate dopo una veloce rassegna stampa dei giornali svizzeri, austriaci e tedeschi, quelli che negli ultimi mesi hanno seguito di più il dibattito sul «No Billag».

E adesso? – «L’ampio successo del Sì – continua Eisenegger intervistato dalla radio pubblica tedesca – dice che abbiamo bisogno del servizio pubblico radiotelevisivo in un’epoca in cui ci si interroga sul futuro del giornalismo di qualità». In Svizzera, quel «quasi 72 per cento» di No al referendum è anche il risultato del lavoro svolto quotidianamente da giornalisti, tecnici, operatori, montatori che realizzano tg e giornali radio, trasmissioni di approfondimento e speciali nelle quattro lingue nazionali. Quel «quasi 72 per cento» ribadisce che l’informazione è una delle colonne del servizio pubblico radiotelevisivo (Bbc: to inform, educate and entertain).

Un’informazione che deve puntare sempre alla qualità. Per ottenerla servono le risorse, come spiega sul suo blog Armin Wolf, il giornalista più noto dell’Orf, il servizio pubblico radiotelevisivo austriaco: «La televisione commerciale (anche un’ottima televisione commerciale) si può finanziare solo con la pubblicità».

Solo con queste entrate, però, l’Orf non riuscirebbe a sostenere i costi quotidiani di «più di venti trasmissioni d’informazione, documentari, nove studi regionali, il racconto di eventi sportivi diversi dal calcio, corrispondenti che coprono il mondo da Washington al Cairo, fino a Pechino». In un editoriale a sostegno del pagamento del canone (in Austria oscilla tra 250 e 320 euro, a seconda della regione), per marcare la differenza tra reti commerciali e pubbliche, Wolf – che nelle ultime settimane è stato attaccato dal vicecancelliere e leader dell’Fpö, Heinz-Christian Strache – cita anche una frase di Gerd Bacher, storico direttore generale dell’Orf: «I canali privati hanno bisogno di programmi per fare soldi. Il servizio pubblico ha bisogno di soldi per fare programmi».

Al di là della possibilità di coprire, raccontare i territori dal locale al globale (la quantità dell’offerta), resta comunque aperta una questione: come lo facciamo? Le risposte devono arrivare dal confronto continuo sui contenuti, sul prodotto. Nelle nostre redazioni, tra Testate, in azienda. Ma anche intensificando i rapporti con i colleghi dei servizi pubblici radio-tv europei. Perché la sfida è a livello europeo.

Nonostante la vittoria del No al referendum – sottolinea Eisenegger – «la pressione sulla SRG e sul suo modello di finanziamento proseguirà». E questa pressione – esercitata da partiti populisti o con toni populisti – si avverte in molti Paesi (in Italia il tema del canone è entrato anche nell’ultima campagna elettorale).

Di chi è il web? – Cosa facciamo? Come lo facciamo? E – ultimo spunto che arriva dall’estero – dove lo facciamo? Certo, radio e tv. Ma c’è anche il web. Noi stiamo affrontando in ritardo una fase ancora sperimentale. In Germania e Svizzera l’informazione di Ard, Zdf Deutschlandradio e SRG ha una presenza strutturata online. Che non piace agli editori.

In Germania, uno degli ultimi colpi è arrivato dal presidente del Bundesverbands Deutscher der Zeitungsverleger, l’associazione degli editori, Mathias Döpfner, che è anche il capo del gruppo Axel-Springer (Bild, die Welt). Döpfner ha etichettato Ard, Zdf e Deutschlandradio «stampa di Stato finanziata con le tasse».

Secondo il presidente del BDZV, stanno danneggiando il mercato delle news online, perché pubblicano articoli gratuiti, realizzati grazie al sostegno economico dei cittadini (alla fine c’è di mezzo sempre il canone), mentre i quotidiani lottano per sopravvivere in un settore in crisi. E in Svizzera, in un editoriale post-referendum, il giornalista della Neue Zürcher Zeitung Michael Schoenenberger, pur sottolineando l’importanza della SRG, ha voluto specificare che serve una riforma del servizio pubblico, in cui è necessario mettere alcuni paletti all’informazione online della SRG: «Un’offerta digitale in cui prodotti specifici per il web dovrebbero essere vietati. La SRG fa radio e tv e dovrebbe trasmettere online i contenuti che produce attraverso questi mezzi. Niente di più». Dunque, questo è un nuovo fronte dello scontro.

Certo, dato che viviamo in un sistema mediatico ibrido, resta da capire dove sta scritto che solo i giornali possono realizzare prodotti pensati per il web. Mi sembra invece sensato che in questo spazio pubblico online, Ard, SRG, la Rai e gli altri servizi pubblici europei possano svolgere nelle condizioni migliori il proprio lavoro. Senza inseguire like.

Senza pensare solo alla diffusione di contenuti. Servono anche progetti per contrastare l’hate speech e le fake news. E poi sul web bisogna costruire un nuovo rapporto con i cittadini, sulla base dei principi del servizio pubblico. Inform, educate, entertain.