La vendita delle reti Rai? Una baggianata

Grillo sta ripetutamente proponendo la vendita di due reti Rai. Ritiene che solo così si possono risolvere i mali del servizio pubblico anche se poi dimentica di usare lo stesso mantra per invocare una seria regolamentazione antitrust nel sistema televisivo. Alcune cose in verità nel suo programma sono scritte però stranamente è ulla Rai che poi concentra l’attenzione.

Eppure, a proposito di Rai, questa è stata anche la settimana dello scontro Gabanelli-ENI, della richiesta di un ingente risarcimento danni per la trasmissione della giornalista che ha fatto dell’indipendenza del servizio pubblico una bandiera non solo a chiacchiere.

Ci si si poteva dunque aspettare da Grillo una sua presa di posizione in difesa della Gabanelli o quantomeno delle libere trasmissioni in Rai, invece nulla. E dire che  lo stesso della denuncia contro le grandi imprese ne ha fatto in passato un cavallo di battaglia (es. Telecom, Parmalat, MPS). Ed invece insiste con questa storia della vendita delle reti che è proprio una baggianata.

Non che la Rai sia esente da critiche, tutt’altro  Va il prima possibile profondamente rinnovata nella missione e resa indipendente e vicina ai cittadini. Ma vendere le sue reti non ha senso in un contesto di moltiplicazione dei canali conseguente all’introduzione del digitale. La questione delle frequenze della Rai è semmai un’altra. Metterle al servizio delle tecnologie che possono servire per la distribuzione dei suoi contenuti o anche di altri in un’offerta convergente.

A RaiWay questo é stato sempre impedito, nell’evidente interesse di qualche operatore concorrente della TV e delle TLC. In una società che si va impoverendo la funzione del servizio pubblico come produttore e distributore di contenuti gratuiti diventa fondamentale.

Ed allora sarebbe stato giusto dire alla RAI ” fate qualità, sviluppate tecnologia e soprattutto siate indipendenti nell’informazione . Ma invece si dice: “vendete parte della RAI”. Già, ma a chi? E che succede in relazione all’asta delle frequenze, semmai si farà? E gli altri, compreso il monopolio satellitare?  Sembrano dunque parole in libertà. Peccato che nel frattempo nessun politico si renda conto delle straordinarie potenzialità della RAI anche da un punto di vista tecnico.

Le reti del servizio pubblico sono le più estese in virtù degli obblighi di concessione, sono quelle posizionate meglio come punti di irradiazione, sono quelle che più facilmente potrebbero essere utilizzate anche per alcune applicazioni tecnologiche di cui tanto si discute a livello internazionale (es. rete wifi nazionale o uso di collegamenti non soggetti ad autorizzazioni amministrative – il cd uso libero delle frequenze), magari in sinergia con le Regioni o gli operatori locali.

Non ci vuole la zingara per capire che in un mondo dove gli apparati mobili hanno superato per numero la popolazione del pianeta le frequenze e le reti sono un asset di fondamentale importanza anche economica.  C’è poi il capitolo: missione del servizio pubblico. Si pone infatti con urgenza la necessità di una riflessione, anche di tipo regolatorio, circa il rapporto tra missione e sviluppo delle diverse piattaforme tecnologiche, in particolare di quelle fondate sull’utilizzo di internet.

Intanto una prima questione. Il mondo convergente delle multipiattaforme rende non più necessaria l’esistenza di un servizio pubblico? Quei connotati di pluralismo e rappresentatività, posti da sempre a sua giustificazione, sono superati dall’infinita serie di opportunità fornite dalla rete? A queste domande ovviamente si deve rispondere non sulla base di ciò che fin ora è stato.

La sopravvivenza del concetto di servizio pubblico, come bisogno primario della collettività all’interno del sistema della comunicazione, ha una possibilità di successo solo se lo stesso sarà declinato su tutte le reti, internet in primis, e sarà adeguato al mutato scenario conseguente all’evoluzione del sistema della comunicazione elettronica e al bisogno di mobilità. A prescindere dal permanere della centralità della televisione, avere tante possibilità di informazione e di contenuti non significa che venga meno l’interesse,  anche costituzionale, a che vi sia un faro di sicure coordinate a cui potersi rivolgere durante la navigazione.

Ad esempio, fatti recenti dimostrano come si ponga con forza il problema dell’affidabilità delle notizie e dell’uso non virale della rete. Questi fenomeni possono essere in parte risolti dalla reputazione di chi immette quel determinato contenuto. Resta tuttavia una grande incertezza. Come colmarla. Nel sistema c’è chi, come il servizio pubblico, ha l’obbligo per fatto costitutivo di produrre informazione garantita quanto a verifica delle fonti, qualità, indipendenza, gratuità.

Tutto questo come evoluzione e non sostituzione del vecchio concetto del pluralismo interno. Sul piano costituzionale, all’effetto sul servizio pubblico dell’articolo 21 deve aggiungersi, in una società sempre più organizzata intorno alla connessione alle reti, la garanzia di livelli minimi di servizio prevista dall’articolo 117. Ci potrebbero essere infatti tanti soggetti che svolgono un ruolo proficuo sul piano del pluralismo informativo o dell’offerta di contenuti, ma non saremo mai sicuri che tale condizione, in assenza di un servizio pubblico nazionale, sia presente in tutte le complesse articolazioni territoriali e sociali del nostro paese, soprattutto in un periodo di impoverimento della società.

Altro tema in una rinnovata missione è quello della fornitura gratuita di contenuti. Viviamo sempre più processi comunicativi nei quali i contenuti di pregio sono a pagamento. Ora le tecnologie già presentano un problema di inclusività sociale, o perché sono costose o perché sono difficili da usare oppure perché materialmente non raggiungono tutti i cittadini (digital divide).

Se a questo problema si aggiunge il loro costo si rischia in futuro di avere una parte della società che gode di una partecipazione informata e di contenuti di qualità e un’altra che deve accontentarsi di un’offerta più scadente, caratterizzata da un forte peso della pubblicità e della pratica di un sbrigativo trattamento dei dati personali.

Ma un’offerta di contenuti di qualità significa anche avere un ruolo nella loro produzione e distribuzione. Il digitale pone problemi nuovi e opportunità di sperimentazione  che possono adeguatamente essere sostenuti proprio da un servizio pubblico moderno nelle tecnologie ed attento alla filiera produttiva nazionale ed europea. Insomma, tutte ragioni che dovrebbero spingere chi si propone come “il nuovo” ad essere più prudente.

Non si tratta di difendere ideologicamente la RAI, si tratta di salvaguardare una ricchezza per il paese, si tratta, in definitiva, di riconoscere il valore di bene comune al servizio pubblico nel suo complesso.

Nicola D’Angelo